Il bacio, tra amore e tradimento

Giotto, Il bacio di Giuda, 1303 – 1305, affresco. Padova, Cappella degli Scrovegni

“Un bacio … cosa vuoi dirmi?”

Tutti conosceranno la domanda del famoso cioccolatino. Beh con un bacio si possono dire tante cose. Il bacio è solitamente un simbolo d’amore, c’è il bacio tra due amanti, il bacio tra madre e figlio, il bacio tra fratelli, il bacio tra amici, tutti diversi tra loro eppure accomunati dal fatto che esprimono amore, affetto.

Il bacio ha sempre suscitato grande interesse nella storia delle varie culture ma anche nella scienza, sono stati, infatti, condotti anche degli studi secondo i quali esso è in grado di stimolare neurotrasmettitori e ormoni come l’ossitocina, anche detto ormone dell’amore, le endorfine che sono responsabili delle sensazioni di felicità e benessere, e la dopamina, conosciuta anche come l’ormone dell’euforia, che stimola il centro del piacere nel cervello.

L’apostrofo rosa è così importante da essersi aggiudicato un giorno tutto per sé: il National Kissing Day, il 6 luglio, istituito in Inghilterra nel 1990, ma la giornata internazionale del bacio può essere festeggiata anche il 13 aprile di ogni anno, data scelta grazie al bacio più lungo della storia ad opera di una coppia thailandese, durato ben 58 ore durante una gara.

Ma se guardiamo al mondo dell’arte, quali sono i baci che vi vengono in mente? Sicuramente primo tra tutti il Bacio di Klimt o il Bacio di Hayez, o, ancora, quello tra Amore e Psiche, ad ogni modo tutte rappresentazioni del bacio tra due persone innamorate … ma questo gesto può rappresentare anche altro? Pensiamo, ad esempio, al bacio di Giuda, quello non è di certo il bacio più romantico del mondo. Esso è diventato anche un modo di dire utilizzato quando vogliamo indicare una falsa manifestazione di affetto da parte di chi in realtà sta già pensando ad un tradimento.

“Mentre parlava ancora, ecco arrivare Giuda, uno dei Dodici, e con lui una gran folla con spade e bastoni, mandata dai sommi sacerdoti e dagli anziani del popolo. Il traditore aveva dato loro questo segnale dicendo: ‹‹Quello che bacerò, è lui; arrestatelo!››. E subito si avvicinò a Gesù e disse: ‹‹Salve, Rabbì››. E lo baciò. E Gesù gli disse: ‹‹Amico, per questo sei qui!››. Allora si fecero avanti e misero le mani addosso a Gesù e lo arrestarono.”

Matteo 26, 47 – 49

L’apostolo Giuda Iscariota bacia Gesù per permettere alle guardie inviate dal Sinedrio di identificarlo tra i discepoli ed arrestarlo. Il bacio in questione, diventato l’emblema del tradimento, entra a far parte anche delle scene rappresentate da Giotto nella Cappella degli Scrovegni, a Padova, tra il 1303 e il 1305. La decorazione all’interno del piccolo edificio può esser ritenuta un vero e proprio poema cristiano in cui il tema principale, trattato pittoricamente, è la storia di Cristo; non poteva, dunque, mancare l’episodio avvenuto all’interno dell’Orto degli Ulivi.

In primo piano, davanti ad uno sfondo occupato interamente da un folto gruppo di soldati, vi sono i personaggi principali con al centro Giuda nell’atto di tradire Cristo abbracciandolo. Il traditore, nello stringere tra le braccia Gesù, lo avvolge con il suo mantello giallo, che è la nota coloristicamente più squillante dell’intera composizione, e questo non è un caso dato che in questo modo il nostro sguardo cade sul particolare e fa sì che la nostra attenzione si vada a concentrare sul significato dell’episodio: l’ipocrisia del discepolo che irretisce la vittima.

Non solo quest’episodio della vita di Cristo, bensì l’intera Cappella degli Scrovegni è un vero e proprio capolavoro della pittura del Trecento italiano. Entrando ho provato una sensazione stranissima nell’essere consapevole che lì, proprio dove ero io, molti e molti anni prima, il grande Giotto era intento a realizzare tutto ciò, inoltre le dimensioni della cappella fanno sì che ci si senta letteralmente avvolti dalla bellezza dei suoi magnifici affreschi.

Il tè è servito!

Meret Oppenheim, Object (Déjeuner en fourrure), 1936. MoMa, New York.

Forse il periodo non è dei più indicati, e il caldo ci terrà ancora un po’ compagnia, ma immaginiamo per un attimo di essere già in autunno, quando le serate estive sono ormai solo un dolce ricordo e l’odore di mare e salsedine è svanito da un po’. Il vento che bussa dolcemente alle finestre delle nostre case torna ad essere un ospite fisso e le foglie iniziano ad adagiarsi sui cortili e ai bordi delle strade, è proprio in pomeriggi come quelli che una buona tazza di tè caldo, un bel libro e delle candele accese profumate, sono in grado di creare una magica atmosfera.

Bere il “tè delle cinque” è ormai un qualcosa non più solo british, a me, ad esempio, piace farmi coccolare da una tazza di tè caldo soprattutto nei pomeriggi invernali quando fuori il tempo non è dei migliori, ma da dove nasce questa tradizione?

L’usanza di bere il tè delle cinque possiamo farla risalire al lontano 1800, quando in Inghilterra era abitudine fare solo due pasti al giorno, colazione e cena. Si narra che la Duchessa di Bedford, Anne, amica della regina Victoria, durante l’intervallo lungo tra la colazione e la cena (all’incirca verso le 20:00) avvertisse sempre un buco allo stomaco, un languorino (come biasimarla!) e decise di iniziare a bere del tè accompagnato da qualche spuntino: pane e burro, dolci, … da allora iniziò ad invitare alcuni amici a prendere il tè insieme, e tornata a Londra continuò a farlo. Anche la Regina Victoria iniziò ad organizzare degli Afternoon Tea, che ben presto diventarono un’usanza diffusa nell’alta società. 

Oggi il tè delle cinque non è più vissuto come un “evento quotidiano”, ma quando pensiamo al tè del pomeriggio, probabilmente, immaginiamo che venga servito in eleganti tazzine in fine porcellana bianca decorata, io, però, ho voglia di presentarvi una tazzina da tè diversa, ricoperta di un materiale del tutto particolare e, me ne rendo conto, non di certo adatto all’uso di cui stiamo parlando: la pelliccia.

Nel 1936 Meret Oppenheim decise di ricoprire una tazzina, con piattino e cucchiaino annessi, di pelliccia di gazzella, creando così una scultura particolare, “surreale”. L’idea venne all’artista mentre si trovava al Cafè de Flore a Parigi, in compagnia di Pablo Picasso e la fotografa Dora Maar. La Oppenheim indossava uno dei bracciali ricoperti di pelliccia che realizzava in quegli anni, Picasso osservò che quel materiale poteva in realtà coprire qualsiasi cosa e Meret controbatté dicendo: “Anche questa tazza con piattino”, è così, quasi per gioco, che prese vita la scultura simbolo del surrealismo.

Ora immaginate di avvicinare le labbra al bordo della tazza, di cercare di bere del tè che è ormai stato per gran parte assorbito dalla pelliccia sul fondo, di zuccherare la vostra bevanda servendovi di un cucchiaino anch’esso ricoperto con lo stesso materiale, beh non ne siamo per nulla ispirati, è un’idea lontana dall’essere allettante. Servire del tè in una tazza del genere è quantomeno irrazionale ed è giusto che sia così, non potremmo aspettarci qualcosa di diverso da un oggetto simbolo del Surrealismo. La razionalità, infatti, lascia il posto all’irrazionalità, tutto ciò che è logico, che è imbrigliato in schemi prestabiliti viene meno,  si hanno, dunque, oggetti che vengono spogliati e allontanati dalla funzione per cui erano stati pensati originariamente, che non solo perdono, ma contraddicono, in modo paradossale, il loro normale uso,  è così che con una tazza da tè diventa impossibile bere del tè.

Con il Surrealismo “ ci si propone di esprimere […] il funzionamento reale del pensiero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica e morale”, così come scrive André Breton nel Primo Manifesto del Surrealismo del 1924.  Lo stesso Breton ha dato il titolo all’opera della Oppenheim, chiamata inizialmente semplicemente “Object”, e poi ribattezzata “Déjeuner en fourrure”, Colazione in pelliccia,  titolo che fa riferimento al “Déjeuner sur l’herbe” di Manet.

Vittoria

Nike di Samotracia, II secolo a.C. circa, Musée du Louvre, Parigi. Foto scattata a dicembre 2014.

Parigi. Era un mattino di dicembre, l’aria fredda arrivava come una lama tagliente sul mio viso ma una dolce atmosfera natalizia smorzava il clima gelido invernale, ed io ero pronta e decisa a raggiungere il Louvre e perdermi nelle sue bellezze.

Ci sono così tante opere che sarebbe davvero impossibile riuscirle a vedere tutte in una sola giornata e, diciamoci la verità, sarebbe anche inutile cercare di farlo perché non ricorderemmo nulla o quantomeno ricorderemmo tutto molto sommariamente senza godere a pieno di nessuno dei capolavori esposti, e questo non vale solo per il Louvre. Ad ogni opera d’arte bisogna dedicare del tempo, il tempo giusto per far sì che tra noi e ciò che stiamo ammirando si instauri un rapporto, bisogna entrare nel cuore dell’opera stessa e, spesso, è impossibile farlo mentre si sta già pensando a quello che si vuole vedere dopo. È per questo che avevo deciso di selezionare solo alcune delle opere che avrei voluto vedere quel giorno, una di queste è la Gioconda, era la mia prima volta al Louvre quindi dovevo passare a salutarla almeno per educazione.

Alla ricerca di Monna Lisa mi ritrovo ai piedi di una scalinata, alzo gli occhi, e lì davanti a me appare una statua, imponente, bellissima, da lasciare senza fiato: la Vittoria alata, protesa in avanti, mostra le sue ali quasi come se fosse appena giunta in volo sulla prua dell’imbarcazione, con un ingresso teatrale, maestoso.

La statua, in marmo pario, viene attribuita dagli storici allo scultore Pitocrito, in base al nome ritrovato sul basamento. Egli scolpì la Vittoria alata a Rodi per commemorare la vittoria della lega delio–attica durante la battaglia dell’Eurimedonte, ma venne ritrovata solo nel 1863, dall’archeologo francese Charles Champoiseau, presso l’isola di Samotracia, ed è per questo che è conosciuta come la Nike di Samotracia.

La personificazione della Vittoria è arrivata a noi senza braccia e acefala, ma la mancanza di un volto non si fa sentire. Incredibilmente guardandola non si sente il forte bisogno di delinearne il profilo, il suo corpo parla per sé, è espressiva, potente, sensuale anche grazie ai panneggi quasi velati che le si attaccano al corpo sospinti dal vento, seguendo l’effetto bagnato che è in realtà tipico di Fidia e, quindi, trae probabilmente ispirazione dai secoli precedenti. È come se fosse appena uscita dalle acque del mare e la stoffa bagnata e leggera del suo chitone l’abbia avvolta delicatamente creando quel gioco del vedo non vedo in grado di mettere in evidenza le sue forme.

Nonostante le lacune e i pezzi mancanti riusciamo, dunque, a godere in pieno della sua maestosa bellezza, e aver deciso di posizionarla in cima alla scala Daru è stato, a mio avviso, geniale. È impossibile non notarla e non rimanerne colpiti, è come se dall’alto della sua eloquenza attenda e dia il benvenuto a tutti coloro che si accingono a salire quei gradini che conducono alla scoperta di altre grandi opere.

È inutile dire che la Nike di Samotracia è diventata una vera e propria icona. Se vi capiterà di andare a Parigi andate ad ammirarla, vi lascerà senza fiato … e se con voi la sua magia non funzionerà sono sicura che non vi lascerà comunque indifferenti.

Rakotzbrücke, il fascino della leggenda

Rakotzbrücke, Germania. Foto scattata a novembre 2018.

 Oggi faremo un piccolo viaggio in Sassonia orientale, più precisamente ai confini con la Polonia, immersi nella vegetazione del Parco delle Azalee e Rododendri di Kromlau (Azaleen und Rhododendronpark Kromlau) alla scoperta di un ponte molto particolare: il Rakotzbrücke, il Ponte del Diavolo.

Costruito nel XIX secolo e circondato da una splendida vegetazione fatta di azalee, che nel linguaggio dei fiori simboleggiano l’amore puro, e rododendri, simbolo di eleganza e bellezza, il ponte è un semicerchio che quando mostra il suo volto riflesso nello specchio d’acqua sottostante forma un cerchio perfetto.

Tale è la sua particolarità che la leggenda vuole che sia opera del diavolo. Si narra che il suo architetto abbia stretto un patto con il maligno per riuscire a realizzare un ponte dalla forma perfetta, ma, si sa, Lucifero chiede sempre qualcosa in cambio, in questo caso l’anima del primo che lo avrebbe attraversato, l’astuto architetto, però, raggirò il demonio facendo passare per primo un cane.

Diverse sono le leggende legate a questa geniale costruzione, alcuni ritengono che attraversandolo su di una barca in una notte di luna piena si riesca ad entrare in contatto con la parte mistica che ognuno ha dentro di sé, altri ritengono sia un passaggio tra due mondi, un varco verso un’altra dimensione, altri ancora affermano addirittura di riuscire a vedere il volto del diavolo impresso nella roccia se ci si trova nella giusta angolazione.

Le leggende caricano di magia e misticismo questa costruzione già di per sé bellissima e in grado di regalarci uno scenario degno di lode in ogni stagione dell’anno, da quando i fiocchi di neve cadono lenti e la candida coltre si adagia sulle forme perfette del ponte, a quando i fiori si risvegliano timidamente per raggiungere poi il loro splendore e brillare sotto i raggi del sole, fino a quando la natura è pronta ad addormentarsi di nuovo, dolcemente, e i toni vivaci dell’estate lasciano il posto ai tipici e romantici colori caldi dell’autunno mentre le foglie si adagiano alle estremità del ponte creando un soffice tappeto e regalandoci una visone poetica … per poi ripercorrere il ciclo, di nuovo, all’infinito.

Il Rakotzbrücke non è l’unico Ponte del Diavolo a noi noto, ce ne sono tanti soprattutto in Europa, ne è un esempio il Ponte della Maddalena a Borgo a Mozzano, in Toscana, tutti accomunati da leggende molto simili tra loro.

Ho visitato il Parco di Kromlau e ammirato Il Ponte del Diavolo quando vi erano dei lavori di ristrutturazione in corso e non c’era acqua, ma vi assicuro che risultava essere già spettacolare pur senza mostrarmi il suo “volto riflesso allo specchio”, forse aiutato anche dal paesaggio autunnale che creava una stupenda cornice naturale. Ma se volete farvi un’idea di come sia quando si riflette nello specchio d’acqua, sul web troverete innumerevoli foto che lo immortalano in tutto il suo splendore.