Un viaggio tra Inferno e Paradiso

Sandro Botticelli, Ritratto di Dante, 1495 circa. Ginevra, Collezione Privata

“Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate”

L’abbiamo scritto ovunque, affisso anche sulle porte della aule di scuola, lo so, non si dovrebbe fare, ma inutile negare che è stato fatto! D’altronde il “sommo d’una porta” non poteva che essere il posto migliore, è lì che Dante ha letto questi versi:

Per me si va ne la città dolente,

per me si va ne l’etterno dolore,

per me si va tra la perduta gente.

Giustizia mosse il mio alto fattore;

fecemi la divina podestate,

la somma sapïenza e ‘l primo amore.

Dinanzi a me non fuor cose create

se non etterne, e io etterno duro.

Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate.

(Inf. III, vv. 1-9)

Oggi, 25 marzo, è il Dantedì, quindi potevamo non dedicare un articolo al sommo poeta?

Ma perché è stato scelto proprio il 25 marzo? Secondo la tradizione è proprio in questo giorno del lontano 1300 che Dante si perse nella “selva oscura” e, da qui, ha avuto inizio la sua peregrinazione e, in seguito, anche quella di tutti gli studenti.

Il sommo poeta ci ha “perseguitati” per tre interi anni scolastici, compagno di un viaggio attraverso l’Inferno e il Purgatorio ma poi, alla fine, ci ha mostrato anche la luce del Paradiso. Eppure è l’Inferno quello che ci ha forse affascinato più di tutti, sicuramente Cerbero non era un bel vedere e Lucifero, ahimè, non era dotato dello stesso sex appeal del suo omonimo della nota serie Netflix, ma questo non conta. Certo, più volte abbiamo dovuto soccorrere Dante durante una serie di svenimenti ma le emozioni forti a volte giocano brutti scherzi, e bisogna dire che nella sua Divina Commedia di sicuro non mancano!

Ad esempio, chi di voi non ricorda questa terzina?

Amor c’ha nullo amato amar perdona,

mi prese del costui piacer sì forte,

che, come vedi, ancor non m’abbandona.

E, dunque, l’ incontro con Paolo e Francesca, vittime del loro stesso amore, che volano abbracciati tra una schiera di anime trascinate da una bufera incessante?

È vero, nessuno aspira ad entrare a far parte della famiglia dei cervidi e trovarsi, da un giorno all’altro, con dei palchi sulla testa come Gianciotto ma, ammettiamolo, siamo sempre stati tutti dalla parte dei due amanti, anche perché loro saranno finiti pure all’Inferno perché lussuriosi, ma il “buon” Gianciotto non avrebbe potuto fare una fine diversa … ad attenderlo non c’era mica il Paradiso!

Un capolavoro simile non poteva assolutamente lasciare indifferente il mondo dell’arte. Sono diversi, infatti, gli artisti che hanno trasformato in immagini il racconto di Dante.

Ad esempio, Lorenzo di Pier Francesco de’ Medici, cugino del più noto Lorenzo il Magnifico, commissionò un ricco manoscritto della Divina Commedia e incaricò il copista Niccolò Mangona di scrivere il testo e Sandro Botticelli di realizzarne le illustrazioni. L’esponente della famiglia Medici aveva commissionato anche altre opere all’artista, tra cui la Primavera che oggi possiamo ammirare agli Uffizi, opere che sono sicuramente più note dei disegni su pergamena, realizzati tra il 1480 e il 1495, che, rispetto alle rappresentazioni di soggetto mitologico, sono stati messi probabilmente in secondo piano. Quelli giunti sino a noi sono soltanto 92, a fronte dei 100 previsti, e conservati in gran parte presso il Kupferstichkabinett di Berlino e, solo 7, presso la Bibilioteca Apostolica Vaticana.

Pochi di questi disegni danteschi sono stati completati da Botticelli e interamente o parzialmente colorati, l’unico completo è La voragine infernale che apre la serie. Si tratta di una rappresentazione globale del famoso imbuto che si venne a creare dopo la caduta dal Paradiso di Lucifero, che vediamo qui conficcato nel lago ghiacciato, il Cocito, situato sul fondo dell’Inferno.

Sandro Botticelli, La voragine infernale, 1480-1495. Roma, Biblioteca Apostolica Vaticana

Nel 1950, invece, in vista della commemorazione del settecentesimo anniversario dalla nascita di Dante Alighieri, venne commissionato, questa volta a Dalí, un ciclo di illustrazioni della Divina Commedia, dall’Istituto Poligrafico dello Stato Italiano. Purtroppo l’opera così come era stata inizialmente pensata non venne mai alla luce perché l’opinione pubblica contestò il fatto che fosse stata affidata ad un artista non italiano. Dalì comunque ci lavorò 9 anni e realizzò 100 acquerelli. Nel 1962 l’editore fiorentino Mario Salani ripropose l’idea iniziale e progettò con la casa editrice Arti e Scienza di Roma un’edizione, divisa in sei libri, della Commedia, corredata dalle tavole di Dalí.

Salvador Dalí, Canto I, Partenza per il grande viaggio

Ma l’artista del Rinascimento italiano e il surrealista spagnolo non furono gli unici a cimentarsi con una tra le maggiori opere della letteratura mondiale, potremmo citare Delacroix con La Barca di Dante, i disegni realizzati da William Blake tra il 1824 e il 1827, il Dante e Virgilio di Bouguereau, …

Insomma, la Divina Commedia è un capolavoro della letteratura mondiale che continueremo a leggere, e a far leggere, e continuerà ad ispirare ancora milioni di artisti.

In punta di piedi

Egli la prega di avvicinarsi.

Ella si dirige allora verso il trono

e s’inchina davanti a lui.

E il principe domanda:

“Bella donna, figlia delle grazie e della gioia, da dove viene la tua arte?

Come puoi tu dominare la terra e l’aria nei tuoi passi,

l’acqua e il fuoco nel tuo ritmo?”

La danzatrice si inchina di nuovo davanti al principe e dice:

“ Vostra Altezza, io non saprei rispondervi,

ma so che:

L’anima del filosofo veglia nella sua testa.

L’anima del poeta vola nel suo cuore.

L’anima del cantante vibra nella sua gola.

Ma l’anima della danzatrice vive in tutto il suo corpo.”

Questa che avete appena letto è parte della poesia di Khalil Gibran, “La danzatrice”. Il poeta ci presenta una ballerina a corte che con la sua danza affascina il principe che le chiede come faccia ad essere padrona al contempo della terra e dell’aria attraverso i suoi passi, la risposta della fanciulla è ciò che meglio descrive cosa sia danzare. La danza non è fatta di semplici passi in successione, non è semplicemente un muoversi con grazia, ma è lasciare fuori il resto e abbandonarsi alla propria anima.

Non sono una ballerina e, quindi, non posso descrive ciò che si prova danzando ma mi affido alle sensazioni che provo dinanzi ad una stella che fluttua sul palco, non abbandonando mai davvero il contatto con la terra ma, al tempo stesso, diventando padrona dell’aria; il palcoscenico è la sua tela e attraverso il suo corpo riempie di colori lo spazio in cui si muove, creando la sua opera. Credo che chi danza sia un po’ come un colibrì che vola nel cielo lasciando la scia delle sue acrobazie, così piccolo ma al tempo stesso forte, emblema della perseveranza, di resistenza, di coraggio … simbolo di libertà!

Il tema della danza classica affascina anche l’artista Degas in quanto gli dà la possibilità di analizzare il movimento, non quello libero e spontaneo bensì quello ritmato da leggi precise. Egli esamina il balletto come spettatore dalla platea, dal palco dell’Opéra, ma anche da dietro le quinte, studia quindi dal vero i soggetti delle sue opere e anche quando fa ritorno nel suo studio egli continua ad esaminare tutto ciò che è riuscito ad imprimere nella sua mente quasi come se si fosse servito di una macchina da presa per documentare il tutto.

Il suo modo di lavorare ci viene testimoniato anche dallo scrittore Edmond de Goncourt che lo descrive così: “Il pittore illustra i suoi quadri, e di tanto in tanto li commenta mimando un passaggio coreografico, imitando, nel linguaggio delle danzatrici, uno dei loro arabeschi, ed è divertentissimo davvero vederlo, con le braccia a cerchio, mediare l’estetica del maestro di ballo con l’estetica del pittore.”

Edgar Degas rappresenta le danzatrici anche durante i loro momenti di riposo, come, ad esempio, avviene per le ballerine  in primo piano de La classe del signor Perrot, ma ama perlopiù rappresentarle in uno dei loro movimenti, come nel pastello del 1878 Ballerina sulla scena, e fermare l’attimo sulla carta o sulla tela, come se fosse uno scatto fotografico.

Dopo il 1881 Degas inizia a dedicarsi anche alla scultura, non di certo per abbandonare o prendersi una pausa dalla pittura ma, al contrario, come obbedienza ad un’esigenza pratica e di studio. Lo stesso artista afferma: “È per mia sola soddisfazione che io modello con la cera animali e persone, non per rilassarmi dalla pittura o dal disegno, ma per dare alle mie pitture e ai miei disegni più espressione, più ardore di vita”. Ovviamente la ballerina non può non essere uno dei suoi soggetti preferiti anche nel campo della scultura, ed è per questo che plasmando la cera realizza la Piccola danzatrice di quattordici anni, in una posa statica con la gamba destra in avanti, il volto rivolto verso l’alto e le braccia dietro la schiena nascoste parzialmente dal suo tutù di vero tulle bianco. È proprio l’utilizzo di elementi reali, impiegati per completare la figura, una delle vere novità. Degas utilizza non solo un vero tutù di tulle, ma dei capelli veri raccolti dietro la nuca e delle tipiche scarpette di danza in raso.

Edgar Degas, Piccola danzatrice di quattordici anni, versione in bronzo.

L’opera, come prevedibile, non fu esente da critiche. Presentata alla mostra degli Impressionisti del 1881, essa venne ampiamente criticata, si dice che alcuni l’abbiano paragonata anche ad una scimmia o ad una mummia azteca, in realtà Degas si è solo affidato ad un profondo realismo, indagando la figura con una minuzia quasi scientifica.

Esistono diverse versioni della Piccola danzatrice di quattordici anni, l’opera fu però realizzata in bronzo solo dopo la morte dell’artista, cercando di preservare al meglio le caratteristiche della cera.

Occhi grandi

C’è un’arte conosciuta come “settima arte”, il Cinema. Prima del suo avvento le Arti erano sei, arti le cui origini si perdono nella notte dei tempi e che nel 1895, grazie ai fratelli Lumière, hanno dato il benvenuto a questa sorella minore (solo per età s’intende) dall’indiscutibile fascino.

Diverse volte il Cinema ha ospitato sul grande schermo storie legate ad altri tipi di arte, tra cui la terza: la pittura, e a tal proposito oggi voglio parlarvi di un film del 2014, “Big Eyes”, tratto dalla vera storia di Margaret Keane.

Il noto regista Tim Burton in questa sua pellicola ha voluto dar voce alla storia dell’artista americana nata Peggy Doris Hawkins e nota al pubblico come Margaret Keane, i cui soggetti delle sue opere sono perlopiù donne, bambini e anche animali dagli inconfondibili occhi grandi, magnetici, la parte più espressiva di un volto, non a caso ritenuti da sempre lo specchio dell’anima essendo probabilmente la parte del corpo che più di ogni altra tradisce le emozioni. Gli occhi non mentono, diversamente dal marito della Keane, Walter, che per un decennio ha fatto passare per sue le opere della moglie, forte del fatto che fossero firmate semplicemente “KEANE” cognome che Margaret ha acquisito proprio da lui.

Ma procediamo con ordine.

In poco meno di due ore “Big Eyes”, prendendoci per mano, ci accompagna nella storia di una donna forte che non ha paura di lasciare il suo primo marito, a dispetto delle regole imposte dalla società del tempo (siamo alla fine degli anni ’50), e trasferirsi a San Francisco con la figlia Jane. Margaret ha sempre avuto una vena artistica, fin da bambina. È una pittrice dal talento indubbio ma che fatica a trovare un’occupazione e per arrotondare si affida alla sua più grande passione, la pittura appunto, e realizza ritratti per le strade della città. Un giorno incontra Walter, anch’egli artista o, meglio dire, aspirante tale. L’uomo è attratto dalla donna e, ovviamente, anche dal suo talento, e ben presto iniziano una relazione che li porterà al matrimonio, proposto dall’uomo come soluzione al fatto che il padre di Jane avesse chiesto la custodia esclusiva della figlia. I primi tempi il matrimonio prosegue per il meglio, ma quasi mai la vera vita è paragonabile ad una fiaba, e i giochi di seduzione tipici della fase dell’innamoramento si trasformano in giochi di bugie e quel sentimento che per natura dovrebbe essere fatto solo di toni dolci e pacati alza la voce.

Keane riesce a far esporre le sue opere e quelle della moglie in un locale e, come era prevedibile, il talento della donna non passa inosservato, a differenza delle sue opere, tanto che quando all’uomo si presenta l’occasione di far passare quei ritratti dagli occhi grandi come sue creazioni la coglie subito, commettendo un vero e proprio furto di identità che andrà avanti per molto tempo prima che la moglie trovi il coraggio di ribellarsi.

Credo che un quadro non sia una mera esecuzione, nel dipinto la mano dell’artista è solo un mezzo mosso in realtà da qualcosa di più grande, da sentimenti profondi. Dipingere non è un semplice gioco di linee, è mettere a nudo la propria anima e lasciarsi trasportare dai moti del cuore, è esprimere tutto ciò che si ha dentro, e quindi, a mio avviso, impossessandosi delle opere della moglie, Keane l’ha colpita nella sua intimità!

Margaret, alla fine, si serve della radio per far sapere a tutti la verità e successivamente denuncia il marito per diffamazione. Walter poteva essere anche un abile paroliere, capace di abbindolare il prossimo, ma quando nell’aula del tribunale il giudice ordina ad entrambi di dipingere un bambino dagli inconfondibili occhi grandi, egli si rifiuta mentre Margaret dà naturalmente vita ad un’altra sua opera!

La verità viene sempre a galla e il talento non mente mai!

Il passato non è passato!

Pablo Picasso, Guernica, 1937. Madrid, Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía

Un ambasciatore della Germania nazista osservando Guernica chiede a Picasso: “Ha fatto lei questo orrore?” e l’artista risponde: “No, l’avete fatto voi”, e ovviamente aveva ragione.

È il 1936 quando scoppia la Guerra civile spagnola che terminerà solo nel 1939. Essa è la prima guerra documentata in senso moderno, infatti, dei fotografi vennero inviati in prima linea, e nelle città bombardate, per documentare attraverso i loro scatti ciò che stava accadendo, scatti che poi furono pubblicati su quotidiani e periodici spagnoli, e non solo, quotidiani che saranno giunti sicuramente anche nelle mani dell’artista Pablo Picasso che nel 1937 da’ vita a Guernica, un’opera compiuta in appena due mesi ed esposta, poi, nel Padiglione Spagnolo dell’Esposizione Universale di Parigi, che rappresenta il bombardamento franchista  dell’omonima città rasa al suolo il 26 aprile 1937. In quest’opera Picasso servendosi di tutti i dispositivi stilistici scoperti durante gli anni della sua attività, riducendo il colore al monocromo, giustapponendo rappresentazioni piatte a figure volumetriche, descrive l’interno, probabilmente di un’abitazione, sventrato dai bombardamenti.  Leggendo l’opera da sinistra verso destra, possiamo vedere una donna straziata che stringe ancora tra le braccia, come una “Pietà moderna”, il figlio, ormai senza vita, con la testa penzoloni e il braccio destro abbandonato che rievoca la rappresentazione michelangiolesca del Cristo morto tra le braccia della Vergine Maria.

Guernica, particolare madre con bambino

Più avanti vi è ciò che rimane del corpo di un uomo che stringe ancora nel suo pugno una spada spezzata, una donna che cerca di fuggire da quell’orrore, una figura con una torcia tra le mani e poi, a destra, un uomo avvolto dalle fiamme, con le braccia rivolte verso il cielo e l’espressione di chi ormai più nulla può fare per salvarsi la vita.

Guernica, particolare uomo avvolto dalle fiamme

Ma nell’opera troviamo anche degli animali, come il toro che può essere visto come simbolo di forza bruta e, sotto la lampada rimasta accesa in quel che rimane di un focolare domestico fatiscente, un cavallo che, al contrario, può essere ritenuto il simbolo dell’intelligenza, di una forza domestica.

L’opera di Picasso nasce come murale e quindi ha delle dimensioni tali da coinvolgere lo spettatore quasi aggredendolo. Egli si sente così a sua volta una vittima tra le vittime. Guernica è sì una descrizione di un dramma locale ma, al tempo stesso, diventa un manifesto universale contro la forza cieca di ogni guerra che colpisce gente inerme, che entra nelle case e non risparmia  bambini, donne, uomini, animali, coinvolge e prende con la forza tutto ciò che trova davanti a sé, indifferentemente.  

Purtroppo, oggi più che mai, un’opera realizzata nel secolo scorso risulta essere un manifesto ancora attuale.

In una guerra non esistono vincitori, ci sono solo vinti. Vinti sono coloro che non hanno chiesto tutto ciò, che si sono svegliati un giorno trovandosi in mezzo a quello che a noi, che viviamo tranquilli nelle nostre case lamentandoci di ogni cosa, sembra quasi un film, di quelli che guardi la sera comodamente sul divano a volume alto, come se fossi al cinema. Sgranocchiando qualcosa, bevendo un tè caldo, osservi gente che ammazza, gente che muore, tifando anche per l’uno o per l’altro perché … tanto è un film! Ma i film si ispirano sempre alla realtà e quelle guerre, quei cecchini pronti ad uccidere un proprio simile, esistono davvero, esistono ancora oggi. La storia dovrebbe insegnare, ma se continuiamo ad aprire i libri di storia e a leggere e memorizzare avendo come fine ultimo solo quello di assicurarci una sufficienza alla fine di una lunga interrogazione non cambieremo mai. Spesso studiamo la storia con lo scopo di prendere un buon voto, ma quello è solo un numero, un numero inutile che non fa di te la persona che sei. Leggiamo attentamente, documentiamoci meglio, chiedendoci il perché, ma soprattutto il come, come poter evitare che la storia si ripeta? La storia, sì, è il passato ma un passato che inevitabilmente ha ripercussioni sul presente, un passato vivo, che deve essere una ferita sempre aperta che non passi inosservata, che ci faccia ricordare gli errori commessi per evitare di ripeterli. Quando quella ferita diventerà una cicatrice sbiadita, quasi invisibile, è allora che saremo persi, è in quel momento che avremo fallito, che torneremo a fare le stesse cose, perché purtroppo gli orrori si ripetono, ce ne accorgiamo oggi che la guerra è così vicino a noi, ma dovremmo farci caso sempre perché dacché l’uomo ha messo piede sulla Terra non c’è stato un giorno in cui non ci sia stata una guerra. “La guerra è stata la norma, la pace l’eccezione”.  Chi scappa dall’Afghanistan, ad esempio, non è diverso da chi sta scappando dall’Ucraina … ma è più lontano e ciò che è lontano a volte, ahimè, sembra non toccarci, ma non è così!

L’uomo, purtroppo, si riconferma ancora una volta la bestia più feroce sulla faccia della Terra.