Sentimenti contrastanti

Frontespizio dell’edizione del 1794 della Critica del Giudizio di Immanuel Kant

Nuvole temporalesche ammassate nei cieli, tuoni spaventosi seguiti da lampi che illuminano la notte,  uragani che lasciano dietro di sé la devastazione, vulcani che si risvegliano … di fronte a tutto ciò siamo una presenza inerme, ci sentiamo piccoli dinanzi alla forza della natura, la vista di questi eventi inevitabilmente ci terrorizza ma, al tempo stesso, ci esalta a condizione che ci troviamo al sicuro.

Tutto questo ci viene ben spiegato da Immanuel Kant nella sua Critica del Giudizio pubblicata nel 1790. In essa il filosofo tedesco parla di Sublime, ovvero di qualcosa di assolutamente grande, una grandezza che però è uguale solo a se stessa. Il Sublime provoca un’emozione intensa tanto che paura e angoscia danno vita ad un sentimento complesso e contraddittorio, fatto di repulsione e attrazione. Eventi come quelli prima citati spaventano ma al tempo stesso affascinano facendoci percepire la sproporzione tra immensità della natura e piccolezza dell’uomo evocando, dunque, l’infinito.

Per comprendere meglio tutto ciò basta osservare l’opera Monaco in riva al mare, di Friedrich, in cui il senso di precarietà della vita è reso dalla figura del monaco sulla spiaggia, una figura che distinguiamo a fatica.

Caspar David Friedrich, Monaco in riva al mare, 1808-1810. Berlino, Alte Nationalgalerie

È come se l’uomo scomparisse di fronte all’immensità del paesaggio che gli si presenta davanti, sotto la vastità del cielo che si prepara alla tempesta e dinanzi al mare cupo, in contrasto con le tonalità più chiare di una spiaggia rocciosa desolata. Immaginate di essere quel monaco, cosa provereste di fronte a questa immensità? Io sentirei sicuramente un senso di solitudine e di angoscia, ma al tempo stesso sarei affascinata da quello spettacolo della natura, non avrei di che temere lì, su quelle rocce, è proprio questo il Sublime di cui parla Kant. Ma se invece fossi in mare, in balia delle onde? Beh, inutile dire che le sensazioni sarebbero sicuramente diverse.

Ma l’opera forse più nota dell’artista tedesco è Viandante sul mare di nebbia, un uomo solitario in piedi sulla vetta di una montagna rocciosa rivolge il suo sguardo verso l’infinito.

Caspar David Friedrich, Viandante sul mare di nebbia, 1818. Amburgo, Hamburger Kunsthalle

Davanti ai suoi occhi il paesaggio si intravede appena, avvolto da una nebbia fluttuante che invade di mistero tutto ciò che si trova al di sotto di quella montagna che al contrario appare chiara e distinta. L’essere impossibilitati a scorgere con chiarezza tutto ciò che si trova dinanzi a noi provoca un inevitabile senso di smarrimento. L’uomo ci volta le spalle, così facendo non riusciamo a vedere il suo volto e quindi ad intuire il suo stato d’animo. Da osservatori possiamo semplicemente fare delle ipotesi, probabilmente il viandante è in raccoglimento di fronte alla natura, ammira la vastità del creato, contempla l’infinito, quell’infinito indagato anche da un altro esponente del romanticismo, un poeta: Giacomo Leopardi.

Concludo, quindi, lasciandovi alla lettura della sua lirica e vi do appuntamento alla nostra prossima pausa con l’arte.

L’INFINITO

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,

e questa siepe, che da tanta parte

dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.

Ma sedendo e mirando, interminati

spazi di là da quella, e sovrumani

silenzi, e profondissima quiete

io nel pensier mi fingo, ove per poco

il cor non si spaura. E come il vento

odo stormir tra queste piante, io quello

Infinito silenzio a questa voce

vo comparando: e mi sovvien l’eterno,

e le morte stagioni, e la presente

e viva, e il suon di lei. Così tra questa

immensità s’annega il pensier mio:

e il naufragar m’è dolce in questo mare.

Cadavere Squisito

Vi va di fare un gioco? Che ne dite di quello del Cadavere Squisito? Tranquilli, non parleremo di nulla di macabro, ma procediamo per ordine, per scoprirne le origini dobbiamo fare un salto indietro nel tempo, nel 1925.

Siamo a Parigi, immaginate un gruppo di artisti riuniti intorno ad un tavolo che decidono di passare il tempo facendo un gioco per cui occorre avere semplicemente carta e matita, il gioco in questione consiste nel far comporre una frase da più persone senza che il giocatore successivo conosca la parola scritta da quello precedente, è così che nascono frasi perlopiù prive di senso, semplicemente dovute ad una casuale associazione degli elementi, e la prima frase che venne ottenuta fu: “Le cadavre exquis boira le vin nouveau” (Il cadavere squisito berrà il vino nuovo”). È proprio dal soggetto di questa frase, e dall’aggettivo che lo segue,  che deriva il nome del gioco: Cadavre Exquis, conosciuto in Italia anche come gioco dei Cadaveri Eccellenti.

Il gioco si collega alla cultura surrealista. Ma cos’è il surrealismo?

André Breton nel suo “Manifesto del Surrealismo”, del 1924, spiega chiaramente, e servendosi anche di numerosi esempi, il significato del movimento, dandone anche una definizione sintetica, a mo’ di dizionario:

“SURREALISMO, s.m. Automatismo psichico puro mediante il quale ci si propone di esprimere sia verbalmente, sia per scritto o in altri modi, il funzionamento reale del pensiero; è il dettato del pensiero, con assenza di ogni controllo esercitato dalla ragione, al di là di ogni preoccupazione estetica e morale”

Il tentativo dell’arte surrealista è, quindi, quello di esprimere il nostro “io” interiore in totale libertà senza, dunque, farsi guidare dalla ragione che, mettendo in atto meccanismi inibitori, inevitabilmente ci condiziona obbligandoci a reprimere istinti e sentimenti. Per raggiungere la libertà di cui parlano i surrealisti bisogna lasciarsi guidare dall’inconscio, così come accade nel sogno, in modo tale che le immagini si susseguano senza un legame apparente rivelando una realtà che spesso è ignota anche a noi stessi. Ma, al tempo stesso, il surrealismo non si limita a trascrivere passivamente il sogno ma cerca piuttosto di scoprire qual è il meccanismo con il quale opera l’inconscio e per fare ciò il processo intimo non viene messo a nudo solo durante il sonno ma anche durante la veglia attraverso “l’automatismo psichico”, ovvero lasciando che una parola segua l’altra senza un apparente collegamento, ed è proprio questo che avviene nel nostro gioco dal nome tetro.

Del Cadavere Squisito, però, ci sono anche altre versioni come quella grafica. Infatti per realizzare questo gioco, al posto delle parole messe casualmente, si può utilizzare il disegno, seguendo per lo più le stesse regole. Sulla parte alta del foglio il primo giocatore disegna ciò che vuole, ripiega poi il bordo in modo tale da coprire quasi interamente il disegno e passa poi il foglio al giocatore successivo che, partendo dalla piccola parte visibile dell’immagine realizzata, continuerà come meglio crede, si procede così fino alla fine del giro quando aprendo il foglio si potrà ammirare l’opera appena realizzata.

Ben presto la pratica del cadavere squisito venne trasferita anche alla pittura con affascinanti risultati.

E adesso? Vi va di provare?

Non vi resta che seguire le istruzioni. Buon divertimento!

Occorrente: carta e penna/matita

Giocatori: 3 o più

Istruzioni:

Prendere un foglio e, partendo dal  giocatore individuato da voi come primo, scrivere a turno una parola, ripiegare il foglio in modo da coprirla e passarlo al giocatore alla vostra sinistra che a suo volta scriverà una parola, ripiegherà il foglio e lo passerà al giocatore successivo. Si continua così fino alla fine del giro.

N.B. La sequenza da rispettare è: sostantivo – aggettivo – verbo – sostantivo – aggettivo.

Che frase uscirà fuori?!

Provate anche a farlo, invece che con le parole, con le immagini. Vedrete nascere opere davvero originali!

Sguardo che pietrifica

Caravaggio, Scudo con testa di Medusa, 1598 ca. Foto scattata a settembre 2015 alla Galleria degli Uffizi, Firenze.

“Volgiti  indietro, e tien lo viso chiuso: che se il Gorgon si mostra, e tu li vedessi, nulla sarebbe del tornar mai suso”

Sono queste le parole che ritroviamo nel IX canto dell’Inferno di Dante, e a pronunciarle è Virgilio che mette in guardia il sommo poeta dallo sguardo pietrificante della Gorgone: Medusa.

Medusa era una delle tre Gorgoni, donne che avevano il potere di pietrificare chiunque incrociasse il loro sguardo, alla quale, però, differentemente dalle altre, non era stata concessa l’immortalità. Nelle rappresentazioni più antiche le tre sorelle venivano raffigurate come donne orrende dalle ali d’oro e le mani di bronzo, con un viso tondo, arricchito da una bocca larga e zanne suine, a cui faceva da cornice una massa di serpenti. Con il passare del tempo, però, questa rappresentazione lascia il posto a quella di tre donne bellissime che dell’iconografia precedente mantengono immutate solo le loro folte chiome sibilanti.

Ci sono diverse versioni del mito di Medusa e diversi sono gli autori che ne hanno parlato, uno di questi è Ovidio che lo inserisce nelle sue Metamorfosi.

Si narra che la donna avesse un aspetto bellissimo tanto che anche lo stesso dio del mare, Poseidone, ne rimase incantato e si unì a lei (secondo Ovidio contro il suo volere) nel tempio di Atena. Quest’ultima, indignata, punì la giovane privandola della sua splendida capigliatura e sostituendola con serpenti velenosi, inoltre la dea fece sì che lo sguardo di Medusa pietrificasse chiunque lo avesse incrociato anche  per sbaglio. Da fanciulla bellissima divenne quindi un mostro terrificante che, alla fine, incontrò la morte per mano di Perseo, il quale, tra le altre cose, si servì del suo scudo a mo’ di specchio in modo tale da evitare lo sguardo diretto della donna, e la decapitò. Dal sangue che sgorgò dalla testa ormai recisa, ma ancora carica del suo potere pietrificante, uscì Pegaso il mitico cavallo alato.

Questo mito, come molti altri, non ha lasciato indifferente il mondo dell’arte tanto che sono numerosi gli artisti che lo hanno rappresentato, e una delle teste di Medusa più note del mondo dell’arte è sicuramente quella presente sullo Scudo realizzato dal Caravaggio.

L’artista rappresenta la testa di Medusa, su uno sfondo verde, al centro di uno scudo ligneo da parata tipico del Cinquecento. Caravaggio non rappresenta il momento in cui Perseo decapita la Gorgone, l’eroe greco, infatti, non compare nella composizione lasciando interamente spazio al volto stravolto e contratto da un grido di angoscia e terrore, quest’ultimo ravvisabile anche nello sguardo, e al groviglio di serpenti che si muovono come impazziti sulla testa della donna . È come se avesse voluto rappresentare il riflesso della Gorgone nello specchio, nel momento in cui l’arma di Perseo le ha reciso il capo da cui scorrono rivoli di sangue, ed è proprio nell’espressione del volto, ma anche nel sangue che sgorga dal collo,  che possiamo rintracciare un’analogia con un’altra opera del Caravaggio, Giuditta e Oloferne.

Il Caravaggio, però, non si limita a rappresentare un soggetto che deriva evidentemente dalla mitologia classica, il suo soffermarsi sull’espressione stravolta del viso rivela lo studio delle reazioni umane in relazione a violente sollecitazioni fisiche ma al contempo psicologiche.

Bellezza da capogiro

Firenze. Foto scattata a settembre 2015

“Complesso di manifestazioni di disagio e sperdimento psichico conseguenti a una forte esperienza emozionale subita, in partic., da visitatori di centri storico-artistici dove forte e caratterizzante è il contesto culturale” (treccani.it)

Di cosa stiamo parlando? Della Sindrome di Stendhal, il cui nome deriva dallo pseudonimo dello scrittore francese Marie-Henri Beyle il quale nel suo “diario di bordo”, “Rome, Naples et Florence”, mentre si trova nel capoluogo toscano, culla di innumerevoli capolavori, scrive:

“Ero giunto a quel livello di emozione dove si incontrano le sensazioni celesti date dalle arti ed i sentimenti appassionati. Uscendo da Santa Croce, ebbi un battito del cuore, la vita per me si era inaridita, camminavo temendo di cadere”

Con queste parole egli descrive quella che negli anni ’70 del secolo scorso è stata, appunto, definita Sindrome di Stendhal, ma che è nota anche come Sindrome di Firenze.

È il 1977 quando per la prima volta viene individuato ed analizzato questo “disturbo”, e a farlo è la psichiatra Graziella Magherini che analizza e descrive alcuni casi di turisti stranieri in visita a Firenze che dinanzi alle bellezze e alla ricchezza artistica della città vengono colpiti da episodi psicosomatici improvvisi e misteriosi.  Ella pubblica, nel 1989, un saggio dal titolo “La Sindrome di Stendhal” in cui descrive alcuni dei casi, a suo avviso, tra i più interessanti, tutti accomunati dal fatto di aver provato sintomi che vanno dalle palpitazioni ad un senso di smarrimento o svenimento trovandosi dinanzi ad un’opera d’arte o in un contesto in cui le bellezze artistiche fanno da padrone.

In realtà, è perlopiù inverosimile che il viaggio di per sé o comunque la fruizione di un’opera d’arte siano la causa di sensazioni talmente forti da essere associati ad una vera e propria sindrome, tanto che ci sono tesi diverse a riguardo. Non avendo titoli, né tantomeno conoscenze appropriate, non aprirò di certo un dibattito da un punto di vista medico (lungi da me farlo), ma devo ammettere che la prima volta che ho sentito parlare di Sindrome di Stendhal mi ha incuriosito!

Certo la visione di un quadro o di un bel paesaggio non può provocare svenimento, perlomeno non ne è la vera causa, ma sicuramente di fronte a quello che potremmo definire un vero spettacolo della natura o dinanzi ad un’opera eccezionale dell’uomo ci si può emozionare, si può restare a bocca aperta. Le emozioni che possiamo provare, a mio avviso, sono tantissime: gioia, stupore, felicità, ma anche, perché no?, rabbia, ribrezzo, dolore … o, ancora, meraviglia. Ecco, la meraviglia, quel sentimento improvviso di ammirazione, di sorpresa, un termine che ha la capacità di racchiudere in sé tutte le sensazioni appena descritte.

È quella meraviglia di cui parla lo psicanalista Bettelheim, il quale da bambino si recava nei musei con la mamma che lo lasciava libero di esplorare, tanto che egli dice che non si stancava mai di visitarli e, soprattutto, non ne rimaneva mai deluso perché nessuno gli diceva come e cosa guardare, egli dice:

“Giravo per le sale del museo, da solo, fermandomi a contemplare questo o quel quadro o oggetto, che meglio rispondeva al mio umore del giorno, ai miei pensieri del momento […] senza che nessuno mi facesse vergognare per la mia mancanza di gusto dicendomi che quell’opera, che a me sembrava priva di valore, era invece importante e bellissima”

E voi avete mai vissuto un’esperienza così? Avete mai provato “meraviglia” dinanzi, più che ad un bel paesaggio, ad un’opera d’arte magari conservata in un museo? Quei musei che, in realtà, non sono solo luoghi polverosi in cui ci si annoia ascoltando spiegazioni, ma luoghi da esplorare non con l’obiettivo di riuscire a vedere quante più cose possibili ma con l’intento di lasciarsi trasportate dalle proprie emozioni e sentirsi liberi, il segreto è saperli vivere! Bettelheim, infatti, nel suo saggio “I bambini e i musei” (che consiglio di leggere) scrive:

“ Ebbene, allora è a questo, forse che servono i musei: a incantare, soprattutto i bambini, a dare loro la possibilità di provare meraviglia, un’esperienza di cui hanno un disperato bisogno”.

Beh, io spero di non smettere mai di meravigliarmi e lo auguro anche a voi. Riempite i vostri occhi, ma soprattutto i vostri cuori, di meraviglia, andate alla ricerca di quel bambino che è ancora dentro di voi e sentitevi liberi di vivere le vostre emozioni, senza soffocarle mai!