Nuvole temporalesche ammassate nei cieli, tuoni spaventosi seguiti da lampi che illuminano la notte, uragani che lasciano dietro di sé la devastazione, vulcani che si risvegliano … di fronte a tutto ciò siamo una presenza inerme, ci sentiamo piccoli dinanzi alla forza della natura, la vista di questi eventi inevitabilmente ci terrorizza ma, al tempo stesso, ci esalta a condizione che ci troviamo al sicuro.
Tutto questo ci viene ben spiegato da Immanuel Kant nella sua Critica del Giudizio pubblicata nel 1790. In essa il filosofo tedesco parla di Sublime, ovvero di qualcosa di assolutamente grande, una grandezza che però è uguale solo a se stessa. Il Sublime provoca un’emozione intensa tanto che paura e angoscia danno vita ad un sentimento complesso e contraddittorio, fatto di repulsione e attrazione. Eventi come quelli prima citati spaventano ma al tempo stesso affascinano facendoci percepire la sproporzione tra immensità della natura e piccolezza dell’uomo evocando, dunque, l’infinito.
Per comprendere meglio tutto ciò basta osservare l’opera Monaco in riva al mare, di Friedrich, in cui il senso di precarietà della vita è reso dalla figura del monaco sulla spiaggia, una figura che distinguiamo a fatica.
È come se l’uomo scomparisse di fronte all’immensità del paesaggio che gli si presenta davanti, sotto la vastità del cielo che si prepara alla tempesta e dinanzi al mare cupo, in contrasto con le tonalità più chiare di una spiaggia rocciosa desolata. Immaginate di essere quel monaco, cosa provereste di fronte a questa immensità? Io sentirei sicuramente un senso di solitudine e di angoscia, ma al tempo stesso sarei affascinata da quello spettacolo della natura, non avrei di che temere lì, su quelle rocce, è proprio questo il Sublime di cui parla Kant. Ma se invece fossi in mare, in balia delle onde? Beh, inutile dire che le sensazioni sarebbero sicuramente diverse.
Ma l’opera forse più nota dell’artista tedesco è Viandante sul mare di nebbia, un uomo solitario in piedi sulla vetta di una montagna rocciosa rivolge il suo sguardo verso l’infinito.
Davanti ai suoi occhi il paesaggio si intravede appena, avvolto da una nebbia fluttuante che invade di mistero tutto ciò che si trova al di sotto di quella montagna che al contrario appare chiara e distinta. L’essere impossibilitati a scorgere con chiarezza tutto ciò che si trova dinanzi a noi provoca un inevitabile senso di smarrimento. L’uomo ci volta le spalle, così facendo non riusciamo a vedere il suo volto e quindi ad intuire il suo stato d’animo. Da osservatori possiamo semplicemente fare delle ipotesi, probabilmente il viandante è in raccoglimento di fronte alla natura, ammira la vastità del creato, contempla l’infinito, quell’infinito indagato anche da un altro esponente del romanticismo, un poeta: Giacomo Leopardi.
Concludo, quindi, lasciandovi alla lettura della sua lirica e vi do appuntamento alla nostra prossima pausa con l’arte.
L’INFINITO
Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.