Memorie custodite

Alberto Burri, Il Grande Cretto. Gibellina (TP)

Immaginate un giorno qualunque, una domenica d’inverno in cui è bello rimanere sotto il caldo piumone un po’ più a lungo rispetto al solito prima di iniziare una nuova giornata, se non fosse per il fatto che tutto ad un tratto la terra inizia a tremare. Siamo nella Valle del Belice, è il 14 gennaio 1968 e la paura invade indifferentemente il cuore di tutti, grandi e piccini.

Il sisma del gennaio 1968 colpì diversi paesi nella Valle siciliana, le vittime furono tante e altrettante persone furono costrette a fuggire. Tra le località colpite c’era anche Gibellina, un paesino dell’entroterra trapanese  il cui centro storico venne letteralmente raso al suolo.

20 km più in là, più tardi, si diede vita ad una Nuova Gibellina e a circa 20 anni di distanza da quel terribile giorno il sindaco di allora, Ludovico Carrao, decise di ripartire da una “ricostruzione culturale”, così come è stata definita da qualcuno, invitando gli architetti e gli artisti dell’epoca a dare il loro contributo. La risposta fu sorprendentemente positiva. Tra gli artisti coinvolti vi fu anche Alberto Burri il quale, però, non volle realizzare un’opera per la nuova nata bensì per la vecchia Gibellina; è per questo che chiese di essere accompagnato proprio lì dove la forza bruta della terra aveva infranto molti sogni, aveva deciso, come uno spietato giudice supremo, il destino di molte vite, lì dove ormai giacevano solo delle macerie silenziose, nell’aspetto, ma in grado di urlare tutto il dolore provato.

L’idea che venne a Burri la spiegò lui stesso, così:

“Andammo a Gibellina con l’architetto Zanmatti, il quale era stato incaricato dal sindaco di occuparsi della cosa. Quando andai a visitare il posto, in Sicilia, il paese nuovo era stato quasi ultimato ed era pieno di opere. Qui non ci faccio niente di sicuro, dissi subito, andiamo a vedere dove sorgeva il vecchio paese. Era a quasi venti chilometri. Ne rimasi veramente colpito. Mi veniva quasi da piangere e subito mi venne l’idea: ecco, io qui sento che potrei fare qualcosa. Io farei così: compattiamo le macerie che tanto sono un problema per tutti, le armiamo per bene, e con il cemento facciamo un immenso cretto bianco, così che resti perenne ricordo di quest’avvenimento.”

Alberto Burri, 1995

Cosa fece in pratica l’artista?

Cosparse di cemento ciò che restava del vecchio paese dando vita ad un grande cretto.

Alberto Burri era già noto per i suoi cretti, ovvero superfici quadrate o rettangolari, spesse, di colore bianco o, a volte, nere su cui si susseguono crepe e screpolature, realizzate a partire dal 1973. A Gibellina, però, interviene su una superficie vastissima, dando vita ad una delle opere di Land Art tra le più famose al mondo. Egli è come se avesse steso sui resti di quello che prima del sisma era un luogo pieno di vita, una sorta di sudario, un lenzuolo bianco che ripercorre, attraverso i tagli tipici dei cretti, le vie e i vicoli del vecchio centro abitato creando una sorta di guscio che custodirà per sempre al suo interno le tracce di un passato che, in quanto tale, non tornerà più ma che rimarrà vivo nel cuore e nella memoria di chi è sfuggito a quell’inferno. È un memoriale che fa sì che il ricordo non si perda e venga trasmesso alle generazioni future, perché è impossibile pensare ad un presente senza tener conto di un passato!

L’artista diede inizio alla sua opera nel 1984 e la realizzò solo in parte. Essa venne, infatti, terminata, seguendo il  progetto originario, solo nel 2015, anni dopo la morte di Burri, avvenuta nel 1995.

Testa di Moro

Colorati, profumati, eleganti … i fiori hanno mille significati nascosti, si pensi alla gioia e all’allegria tipica del girasole, all’amore che si cela dietro un bouquet di rose, alla semplicità della margherita.

C’è chi ama circondarsi di fiori, chi aspetta con ansia la primavera per esporre sul proprio balcone vasi fioriti, e anche la scelta di questi ultimi, che fungono da contenitore, non viene lasciata al caso! Oggi è proprio di essi che voglio parlarvi, più precisamente delle teste di Moro, i tipici vasi della tradizione siciliana che nascondono una singolare leggenda.

Scopriamola insieme!

Le teste di Moro sono vasi in ceramica dipinti accuratamente a mano, solitamente realizzati in coppia, che rappresentano rispettivamente un volto di donna e uno di uomo, un Moro appunto, e che ancora oggi vengono utilizzate per decorare i balconi, come da tradizione, o anche come semplici complementi d’arredo adatti agli ambienti più classici ma al tempo stesso a quelli moderni.

La leggenda che si cela dietro la loro origine è davvero suggestiva e risale all’epoca della dominazione dei Mori in Sicilia. Si narra che, in quegli anni, nella città di Palermo, precisamente nel quartiere Kalsa, viveva una giovane donna, bellissima, che fece perdere la testa ad un soldato arabo. La ragazza ricambiò il suo amore ma non poteva immaginare che l’uomo fosse già sposato e avesse anche dei figli che lo aspettavano in Oriente, dove presto avrebbe fatto ritorno. Quando la bella siciliana scoprì il segreto dell’uomo si sentì, ovviamente, tradita e accecata dalla rabbia decise di vendicarsi nel peggiore dei modi. Dopo l’ultima notte passata insieme, mentre il Moro si era ormai abbandonato tra le braccia di Morfeo, lo colpì mortalmente, e poiché il volto di quell’uomo, nonostante tutto, continuava ad affascinarla decise che sarebbe stato suo per sempre, come? Gli tagliò la testa con cui diede vita ad una sorta di vaso che espose sul suo balcone e al cui interno piantò del basilico che crebbe talmente tanto da suscitare l’invidia di tutti gli abitanti della città. Fu così che, da quel giorno, in molti decisero di costruire dei vasi a forma di testa di Moro.

Chi poteva immaginare che dietro a quei vasi dai colori brillanti si celasse una simile storia?!

Camille Claudel e la libertà negata

Camille Claudel, L’Âge Mûr, Musée Rodin

Ah l’amour, l’amour…

Il mondo dell’arte è pieno di storie d’amore, storie di amore a prima vista come quella di Claude Monet e Camille, storie contrastate come per Vincent Van Gogh e Sienne, amori che sono durati tutta la vita come quello tra Marc Chagall e Bella ma anche amori folli come quello di Frida Kahlo e Diego Rivera o leggendari come quello tra Yōko Ono e John Lennon, e potremmo elencarne ancora molti.

Molto spesso le donne amate erano le stesse muse degli artisti come nel caso di Auguste Rodin e Camille Claudel, protagonisti del racconto di oggi.

Era il 1883 quando l’artista francese entrò nell’atelier parigino, in cui era stato chiamato dall’amico Boucher per sostituirlo nel corso di scultura, e rimase subito affascinato da Camille, la giovane dai lineamenti dolci e dal forte temperamento che ben presto divenne la sua musa e… la sua amante.

Camille già prima di conoscere Rodin era una grande artista, una donna la cui infanzia fu segnata da un rapporto complicato con la madre,  che aveva trovato rifugio nella scultura e, più tardi, anche fra le braccia di quest’uomo molto più grande di lei che la faceva sentire amata e protetta e, al tempo stesso, apprezzava la sua arte, egli infatti affermava:  “Le ho mostrato l’oro, ma l’oro che trova è tutto suo”.

Così la giovane scultrice, da allieva, musa, amante, diviene collaboratrice del padre del celebre Pensatore, e  non era una cosa così scontata per una donna se si considera che affermarsi come artiste era davvero difficile in un mondo in cui la donna non poteva che essere moglie e madre, in un mondo in cui le donne non venivano quasi mai premiate e non erano accettate nella maggior parte dei Salon,  eppure Camille, grazie al suo forte temperamento, ce l’aveva in parte fatta.

Purtroppo la vita ti riserva sorprese inaspettate e l’affermarsi come artista e l’aver trovato nel suo “maestro” l’uomo della sua vita fu solo una breve parentesi rosa. Rodin, amava Camille, ma non solo lei! Egli, infatti, faceva coppia fissa con Rose Beuret, donna che non lascerà mai e che poi sposerà nel 1917.

A questo “triangolo amoroso” probabilmente si rifà anche una delle sue  opere intitolata L’Âge Mûr composta da tre figure: una giovane donna in ginocchio che tende le mani verso quella dell’uomo, più anziano, che non l’afferra, anzi l’ha appena lasciata per farsi trascinare via dall’abbraccio di una seconda donna.

Camille era consapevole di non poter essere l’unica per Rodin, se ne illuse per molti anni ma ad un certo punto dovette fare i conti con la realtà. Alla tristezza di un amore tutt’altro che a lieto fine si aggiunse anche il perdurare della totale anaffettività di una madre che arrivò addirittura a farla rinchiudere  nel manicomio di Montfavet nel marzo 1913, subito dopo la morte del padre che era il suo unico sostenitore, dove passò molti anni della sua vita nonostante i medici non riconoscessero in lei particolari disagi psichici, anzi erano convinti che tornare a vivere in famiglia avrebbe fatto solo bene alla giovane, ma questo non avvenne mai. Camille morì dopo ben 30 anni di reclusione, nel 1943, e al suo funerale non si presentò nessuno.

Questa che avete appena letto è, dunque, la storia di una donna che chiedeva solo di essere libera, nel senso più puro del termine, libera di esprimersi, libera di amare, libera di essere amata, ma che si è vista privata della libertà proprio da colei che già per sola natura avrebbe dovuto amarla incondizionatamente: la madre!

Teste di Modì

Oggi parliamo di una delle più grandi beffe dell’arte: le teste di Modì.

Siamo a Livorno, immaginate una calda giornata di luglio del 1984, centenario della nascita di Modigliani, dopo giorni dall’inizio delle operazioni di drenaggio nei fossi livornesi alla ricerca delle quattro sculture che, secondo una leggenda, l’artista avrebbe buttato in quel luogo prima di andare a Parigi, finalmente viene ritrovata una testa con i tipici “tratti alla Modigliani”, inutile descrivere la gioia immensa di coloro che fino a quel momento non avevano trovato nulla e, ormai, venivano anche un po’ derisi per questo.

La notizia fece il giro del mondo, esperti e critici d’arte avanzavano ipotesi e tutti erano più che certi dell’autenticità dei reperti ma, ahimè, in quel momento nessuno poteva immaginare di essere vittima di uno scherzo e, nel frattempo, i veri autori di quelle teste attribuite all’artista ormai scomparso, erano davanti la tv e seguivano increduli la vicenda, convinti del fatto che, soprattutto gli esperti, non si sarebbero fatti ingannare da una beffa simile.

Ma come dicono le parole della canzone di Caparezza:

“Gli esperti dicono che si,

quelli lì, sono di, Modì!

Esporle qui, nel museo

di Amedeo, oggidì, dillo ai TG!”

Le teste ritrovate furono tre ma solo la seconda di esse era stata realizzata, per giunta senza l’utilizzo degli “attrezzi del mestiere” da tre studenti “con il Black and Decker”, i quali rimasero anche loro di sasso quando videro le altre due teste. A quanto pare non erano stati gli unici ad aver avuto questa “brillante” idea.

Anche lo scultore Angelo Froglia, infatti, ignaro dell’operazione dei tre ragazzi, aveva fatto praticamente la loro stessa cosa ma con un intento ben diverso; egli realizzando le due sculture, attenendosi alle caratteristiche forme ormai ritenute tipiche di Modì, voleva dar vita ad una provocazione artistica, ovvero far capire che attraverso un processo di persuasione collettiva messa in atto dai giornali, dalla tv, dalle stesse chiacchiere tra persone esperte e non, si potevano condizionare le convinzioni della gente, e, alla fine, è proprio quello che è accaduto.

Dopo settimane gli autori della beffa si sono sentiti, giustamente, in dovere di raccontare tutta la verità se non fosse stato così, magari, quelle teste le avremmo ritrovate sui manuali di storia dell’arte attribuite a Modigliani, oltre che esposte in apposite teche nei musei, cosa che non è detto che non avvenga! Pare, infatti, che si stia pensando di girare un film che racconti tutta la vicenda e alcuni vorrebbero che le “false” opere vengano esposte.

Staremo a vedere!

Mafalda, la bambina ribelle

Oggi, di 90 anni fa, nasceva Joaquín Lavado, in arte Quino, il papà di Mafalda personaggio immaginario dell’omonima striscia a fumetti.

Mafalda, bimba dall’inconfondibile caschetto nero con tanto di fiocco, ha 6 anni e odia la minestra ma ancor di più le ingiustizie.

La matita di Quino dà vita a Mafalda nel 1963, su commissione di un’azienda di elettrodomestici, per una pubblicità di lavatrici . . . non piacque! A quanto pare, però, non era destinata a sparire tanto che l’anno successivo rispuntò sulla rivista argentina “Primera Plana” e, successivamente, su “El Mundo”, diventando la protagonista della nota striscia di fumetti.

Mafalda si comporta come tutti i bambini della sua età ma, allo stesso tempo, guarda al mondo degli adulti in modo critico (come darle torto?!). Si interessa dei problemi del mondo come la guerra in Vietnam, la fame o il razzismo , problemi che vorremmo non sfiorassero mai i bambini ma che, ahimè, esistono ed è giusto che vengano loro spiegati anche se, la maggior parte delle volte, è difficile rispondere a domande dirette e disarmanti come quelle di Mafalda, la quale è stata definita da Umberto Eco “una vera eroina ribelle”.

Eco è autore della prefazione al volume “Mafalda Contestataria” (edito Bompiani) del 1964 e la sua descrizione ci aiuta ad inquadrare al meglio il personaggio. Egli, infatti, scrive:

“Mafalda è un’eroina arrabbiata che rifiuta il mondo così com’è. Vive in una continua dialettica col mondo adulto, che non stima, non rispetta, avversa, umilia e respinge, rivendicando il suo diritto a rimanere una bambina che non vuole gestire un universo adulterato dai genitori”

Nel 1973, dieci anni dopo la nascita del personaggio, Quino smise di disegnarla affermando che si era stancato, non ce la faceva più a parlare di tutto ciò che non andava! A qualche anno di distanza da questa decisione, la notte del 24 marzo 1976, l’Argentina fu vittima di un golpe militare e Quino non nascose le sue idee, affermando che se Mafalda fosse vissuta durante gli anni della dittatura militare sarebbe forse stata una “desaparecida” in più. Non sarebbe sopravvissuta per il semplice fatto che aveva un cervello critico.

Ma, nonostante tutto, Mafalda continua ad essere tutt’ora popolare, chiunque, in un modo o nell’altro, si è imbattuto, almeno una volta, in una delle vignette che la vedono protagonista.

Alla bambina ribelle sono state dedicate anche delle statue (tre, per l’esattezza), la più nota delle quali si trova nel quartiere San Telmo di Buenos Aires.

Statua di Mafalda. San Telmo, Buenos Aires

Oggi anche Google ha omaggiato il fumettista argentino con un doodle, lo avete visto?!

In fondo al mar

Bronzi di Riace, V sec. a.C. Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria

Quanti segreti nasconde il mare?

Manca poco più di un mese al cinquantenario di uno dei ritrovamenti più noti, e avvolti ancora da un alone di mistero, del mondo della storia dell’arte, quello dei Bronzi di Riace, e per l’occasione si è già pensato ad una serie di iniziative volte a raccontare la ricchezza storico artistica della Calabria partendo proprio dalle due statue recentemente candidate a diventare Patrimonio Unesco.

Era il 16 agosto 1972 quando un appassionato subacqueo decise di immergersi a circa 200m dalla costa nei pressi di Riace Marina senza sapere che quel giorno sarebbe passato allo storia. Giunto, infatti, ad 8m di profondità si imbatté in due statue bronzee che giacevano indisturbate, sul fondale marino, da chissà quanto ormai!

Le ipotesi riguardo l’origine, la datazione e l’ideazione dei due uomini nudi, originariamente armati di lancia e scudo, oggi esposti al Museo Archeologico di Reggio Calabria, sono diverse ma molto probabilmente essi risalgono al V sec. a.C. e si suppone che siano stati gettati in mare durante una burrasca per alleggerire la nave che li trasportava o che, probabilmente, siano affondati con essa, anche se del relitto ancora oggi pare non ci siano tracce.

Le due statue, “battezzate” come statua A e statua B e rispettivamente alte 1,98m e 1,97m, non sono interamente in bronzo in quanto presentano alcuni elementi in argento, come i denti della statua A, in calcite, come la sclera degli occhi le cui iridi erano in pasta di vetro, e in rame. Con quest’ultimo materiale sono stati realizzati i capezzoli, le labbra e le ciglia di entrambe le statue e la cuffia, di cui sono visibili solo alcune tracce, delle statua B.

Il loro stile rimanda a stilemi dorici propri del Peloponneso tanto che possiamo affermare che essi siano stati eseguiti ad Argo come è stato dimostrato anche dall’esame delle terre di fusione.

Ma cosa raffigurano?

La statua A è un oplita mentre la B rappresenterebbe un re guerriero e, inoltre, è stata avanzata l’ipotesi che abbiano a che fare con il mito dei “Sette a Tebe” narrato da molti poeti e tragediografi antichi, tra cui Eschilo,  che è ispirato al conflitto tra i due fratelli Eteocle (con cui viene identificato uno dei Bronzi, la Statua B) e Polinice (Statua A), nati dal rapporti incestuoso tra Edipo e Giocasta, vedova di Laio, ucciso inconsapevolmente da Edipo stesso (suo figlio).

I bronzi di Riace sono solo un esempio di opere rinvenute in fondo al mare. Chissà quante altre meraviglie giacciono sui fondali marini in attesa di esser riportati alla luce, magari tra di voi c’è un appassionato sub che presto si imbatterà in qualche tesoro nascosto 😉

Cacciatore tra le stelle

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Vi è mai capitato di trovarvi, in una notte buia e limpida, con il naso all’insù ad ammirare il luccichio delle stelle? Che spettacolo meraviglioso! La visione del cielo notturno è qualcosa che incanta, che fa comprendere la grandezza dell’universo, che affascina, è una vera e propria opera d’arte che è in grado di unire popoli lontani e con culture profondamente diverse tra loro.

Ma osservando quelli che appaiono a noi come puntini che brillano lontano siete in grado di riconoscere le varie costellazioni?

La più antica mappa stellare a noi nota venne incisa su un frammento di avorio, proveniente da una zanna di mammut, oltre 32.000 anni fa e fu rinvenuta, in Germania, in una grotta. Essa ritrae un uomo con le gambe distese che sembra rispecchiare la disposizione delle stelle della costellazione di Orione.

Tra tutte le costellazioni quella di Orione, visibile in tutto il mondo, è probabilmente la più semplice da identificare, basta cercare tre stelle luminose allineate su una retta obliqua che formano la famosa Cintura di Orione e il momento migliore per vederla è nelle sere del mese di febbraio.

Fin dalla notte dei tempi gli uomini hanno sempre narrato storie che potessero in un certo qual modo spiegare l’origine delle bellezze dell’universo e le costellazioni, dunque, non possono non essere collegate ad affascinanti racconti mitologi. Per quanto riguarda Orione, nella mitologia sumera, era associato all’eroe Gilgamesh che combatteva in cielo contro il Toro, mentre in quella greca era il figlio di Poseidone che amava la caccia. Un giorno Orione si vantò di essere in grado di uccidere qualsiasi specie animale che vivesse sul Pianeta ma queste parole offesero Gaia, la dea della Terra, la quale mise alla prova “l’eroe” inviandogli uno scorpione. Quest’ultimo punse Orione durante la lotta che, però, riuscì comunque ad ucciderlo prima di esalare l’ultimo respiro. Dopo questa vicenda, Zeus, re di tutti gli dei, decise di posizionare Orione e Scorpione sui due lati opposti del cielo in modo che, non riuscendo a vedersi, smettessero per sempre di combattere.

Ma al di là della storia che vede in Orione il grande cacciatore la cui arroganza lo fece cadere vittima dello scorpione, questa costellazione, come tutti gli altri gruppi di stelle, avevano un uso pratico. I navigatori, infatti, hanno sempre visto nelle stelle punti riconoscibili per riuscire ad orientarsi durante i loro viaggi e per gli agricoltori fungevano da calendario per la semina e la raccolta. Alcuni, inoltre, affermano che gli antichi Egizi decisero di posizionare le tre piramidi principali di Giza in modo da replicare la posizione delle stelle che formano la Cintura di Orione.

Quella di Orione è solo un esempio delle tante storie, collegate alle varie costellazioni, che contribuiscono ad accrescerne il loro fascino e a farci venir voglia di attendere il calar del sole per godere dello spettacolo del cielo che, nelle notti limpide, indossa il suo più bell’abito da sera!

Giro in gondola

Gondole. Foto scattata a Venezia nel 2014

Oggi vi porto a Venezia alla scoperta di un’elegante imbarcazione che, negli anni, è diventata un vero e proprio simbolo della città: la gondola.

Essa è sempre stata l’equivalente della carrozza e, quindi, in origine veniva utilizzata dai benestanti per i loro spostamenti ufficiali, è solo più tardi che la sua funzione muta così come cambia anche il suo aspetto. Inizialmente le gondole erano meno lunghe, è solo a partire dall’Ottocento, infatti, che la loro lunghezza si assesta agli attuali 11 metri, inoltre oggi siamo abituati a vedere queste imbarcazioni completamente aperte ma non è sempre stato così. Prima che esse fossero destinate ad un esclusivo uso turistico, erano dotate di una copertura removibile, detta felze, dotata di porta e finestre scorrevoli arricchite da veneziane e tendine, che permetteva ai passeggeri di proteggersi dal freddo ma anche dagli sguardi indiscreti.

Ma non è finita qui! Avete mai notato che le gondole navigano sempre inclinate su un fianco? È perché sono asimmetriche, con il lato sinistro più lungo di ben 24cm rispetto al destro,ed anche questa è una caratteristica presente solo a partire dall’Ottocento, tanto che in un’opera di Gentile Bellini, del 1500, “Miracolo della croce caduta nel Canale di San Lorenzo”, le gondole appaiono più corte, più larghe, meno slanciate di quelle attuali e prive di asimmetrie. Ma quella del Bellini non è l’unica opera in grado di testimoniare l’evoluzione della tipica imbarcazione veneziana di cui ritroviamo traccia in diversi dipinti a partire dal 1400.

Gentile Bellini, Miracolo della croce caduta nel Canale di San Lorenzo

Parlando però di Venezia e facendo riferimento al mondo dell’arte non possiamo non citare Canaletto e, tra le tante vedute di Venezia da lui realizzate, la “Veduta del Canal Grande verso la Punta della Dogana, da Campo San Vio”. In quest’opera, un olio su tela realizzato tra il 1740 e il 1745, Giovanni Antonio Canal rappresenta uno degli scorci da lui più amato e replicato più volte dando vita a versioni leggermente diverse tra loro.

Canaletto, Veduta del bacino di San Marco verso punta della Dogana, da Campo San Vio, 1740-1745. Milano, Pinacoteca di Brera

Sulle acque del Canale costeggiato dai tipici palazzi veneziani, l’artista rappresenta diverse gondole, una delle quali è dotata di felze, “guidate” dalle abili braccia dei gondolieri, sotto un cielo appena velato da candide nubi, e con la sua abilità pittorica ci riporta alla Venezia del 1700 facendoci sentire partecipi, più che spettatori, della tipica quotidianità di quegli anni.

In attesa della nostra prossima pausa con l’arte, vi lascio con una curiosità. Sapevate che la forma del ferro da prua della gondola non è casuale? L’andamento ad S, infatti, riprende il percorso del Canal Grande, i sei denti rivolti in avanti corrispondono ai sei sentieri di Venezia, il dente rivolto verso l’interno è l’isola della Giudecca, l’archetto sopra l’ultimo dente è il Ponte di Rialto e, per finire, l’estremità in alto simboleggia il cappello del Doge.

Come vedete, mai nulla è lasciato al caso!

La Fontana di Trevi: tra storia, film e desideri

Fontana di Trevi. Foto scattata a Roma a gennaio 2022

“Marcello, come here!”

È con queste parole che Sylvia, in “La Dolce Vita”, avvolta in un lungo abito da sera, invita Marcello a raggiungerla nella Fontana di Trevi e ad abbandonarsi, come lei, alle “carezze” dell’acqua cristallina che scorre dalla larga scogliera vivificata dalla rappresentazione scultorea di numerose piante.

La Fontana di Trevi è forse, tra le fontane presenti nella capitale, quella più nota e più fotografata dai turisti di tutto il mondo, ed è la mostra terminale dell’acquedotto Vergine, risalente al 19 a.C., che, tra gli acquedotti antichi, è l’unico  ad essere tutt’ora operativo.

La realizzazione della fontana così come si presenta oggi la si deve al pontefice Clemente XII, il quale, nel 1732, indisse un concorso al quale presero parte i maggiori artisti dell’epoca tra cui Nicola Salvi, che fu poi l’ideatore del progetto i cui lavori si protrassero per diversi anni. La fontana, in stile barocco, venne infatti terminata e, successivamente, inaugurata il 22 maggio 1762 dal pontefice Clemente XIII, ma la cosa curiosa è che questa fu l’ultima ma non l’unica inaugurazione del monumento. Esso venne inaugurato già nel 1735 dal pontefice committente (Clemente XII) quando i lavori erano ancora in corso, e, una seconda volta , nel 1744, dal suo successore Benedetto XIV, quando Salvi, Maini (l’esecutore delle sculture) e lo stesso Clemente XII erano passati ormai a miglior vita.

Ma cosa rappresenta quest’opera costruita a ridosso di una delle facciate del preesistente Palazzo Poli?

Articolata come un arco di trionfo, con una profonda nicchia, la fontana digrada verso un ampio bacino su cui si erige la scogliera. Il centro è occupato dalla statua di Oceano alla guida di un cocchio, dalla singolare forma a conchiglia, trainato da due cavalli, uno iroso e l’altro placido, frenati da due tritoni. Nei rilievi troviamo la rappresentazione della leggenda della sorgente e la storia dell’acquedotto, non mancano, inoltre, riferimenti agli effetti benefici dell’acqua rappresentati dalle due allegorie presenti nelle nicchie laterali: Salubrità e Abbondanza.

La Fontana di Trevi ha, sì, fatto da splendida cornice ad una delle scene più note del film del regista Federico Fellini ma è anche protagonista di una commedia del 1961, “Totòtruffa 62”, in cui il principe Antonio De Curtis la vende ad un malcapitato italo-americano, facendola passare, tra le altre cose, come fonte di guadagno grazie alle monetine che ogni giorno vengono lanciate al suo interno da chi esprime un desiderio, usanza, peraltro, in voga tutt’oggi.

Il lancio della moneta nella Fontana di Trevi è supportato anche da diverse leggende tra cui la più nota, e antica, vuole che colui che lancia la monetina rivolgendo le spalle alla fontana, tenendo gli occhi ben chiusi e con la mano destra sulla spalla sinistra godrà del privilegio di tornare nella Città Eterna. Un’altra leggenda, invece, è legata al lancio di ben tre monete: la prima è legata al desiderio di tornare a Roma, la seconda all’incontro con l’amore della propria vita, la terza all’avverarsi del desiderio del matrimonio o, al contrario, a quello di allontanarsi dal proprio partner per trovarne un altro.

Chissà se, tra tutti coloro che fino ad ora si sono cimentati nel lancio della monetina, qualcuno abbia espresso uno dei desideri appena elencati.

Simbolo di fedeltà

“Un cane non se ne fa niente di macchine costose, case grandi o vestiti firmati. Un bastone marcio per lui è sufficiente. A un cane non importa se sei ricco o povero, brillante o imbranato, intelligente o stupido, se gli dai il tuo cuore lui ti darà il suo. Di quante persone si può dire lo stesso? Quante persone ti fanno sentire unico, puro, speciale? Quante persone possono farti sentire… straordinario?”

da “Io e Marley”

Oggi voglio iniziare con questa bellissima frase tratta dal finale di un film in cui i protagonisti, i neosposi John e Jenny, decidono di adottare un cane, un cucciolo di Labrador che chiamano Marley in onore del cantautore giamaicano Bob Marley. Marley si rivela, a dispetto del suo dolcissimo aspetto, un cucciolo davvero vivace, forse fin troppo, ne combina di ogni ma come ogni migliore buon amico dell’uomo ama incondizionatamente i suoi “familiari” consolando, ad esempio, Jenny anche in un momento per lei triste e doloroso, e diventando poi un amico per i loro bambini.

Ma la vita, si sa, è un viaggio fatto di momenti bellissimi, e inevitabilmente anche di alcuni tristi, e come ogni viaggio ha un inizio e una fine. Marley, ormai vecchio e ammalato, muore lasciando in tutti una profonda tristezza ma anche la gioia di aver condiviso parte della propria vita con “un grande cane” che li ha “amati ogni giorno qualunque cosa accadesse”, a prescindere, quindi, da qualsiasi cosa!

Ecco, i cani sono semplicemente fedeli, sempre e comunque, ed è proprio come simbolo di fedeltà che sono spesso stati rappresentati nelle opere d’arte, come nel caso del celebre ritratto dei Coniugi Arnolfini realizzato da Jan Van Eyck.

Jan Van Eyck, I Coniugi Arnolfini, 1436, olio su tela. Londra, National Gallery

L’artista fiammingo inserisce i personaggi in un ambiente borghese, la camera degli sposi, dando vita ad un’opera suggestiva che si presta a numerose interpretazioni e racchiude in sé diversi significati simbolici, non limitandosi ad essere una semplice rappresentazione del matrimonio tra i due, tanto che alcuni ritengono sia più che altro la rappresentazione della promessa e, dunque, del momento del fidanzamento.

Ad ogni modo l’opera pullula di oggetti che, a chi guarda superficialmente l’opera nel suo insieme, potrebbero sembrare irrilevanti ma che, in realtà, racchiudono dei significati ben precisi divenendo simboli della vita in generale e più precisamente della vita spirituale, come avviene per l’unica candela accesa sul candelabro che pende dal soffitto.

Jan Van Eyck, I Coniugi Arnolfini, dettaglio della candela

Nella fiamma di quest’ultima si uniscono, insieme alla cera e allo stoppino, il fuoco e l’aria tanto che il poeta Novalis direbbe che in essa sono attive tutte le forze della natura, inoltre, nella sua verticalità, rappresenta la vita ascendete verso il cielo.

Altro oggetto da non sottovalutare è lo specchio, lo vedete, lì, sulla parete di fondo della camera da letto?

Jan Van Eyck, I Coniugi Arnolfini, dettaglio dello specchio

Esso funge, prima di tutto, come espediente per rappresentare ciò che c’è nella stanza ma che si trova dietro il nostro sguardo, compreso l’artista che realizza l’opera, in più è simbolo dell’anima perché, come scrive Gregorio di Nissa, “come lo specchio ben costruito riceve sulla sua superficie ben levigata i tratti di chi gli sta di fronte, così l’anima, purificata da tutte le macchie della terra, riceve, nella sua purezza, l’immagine della bellezza incorruttibile”.

Ma, c’è un però: nello specchio ritroviamo i coniugi di spalle, i personaggi che sono loro di fronte, tutti i dettagli della camera da letto ma non il cagnolino. Quel cane dagli occhietti vispi che, come abbiamo detto all’inizio, è simbolo di fedeltà e dunque perfetto nella rappresentazione di un’unione coniugale, non è accompagnato dal suo riflesso nello specchio.

Viene da chiedersi: che fine ha fatto il migliore amico dell’uomo? Che sia stato aggiunto dopo senza modificare l’immagine nello specchio? L’artista lo ha forse dimenticato? Sembrerebbe davvero difficile crederlo!