Immaginate un giorno qualunque, una domenica d’inverno in cui è bello rimanere sotto il caldo piumone un po’ più a lungo rispetto al solito prima di iniziare una nuova giornata, se non fosse per il fatto che tutto ad un tratto la terra inizia a tremare. Siamo nella Valle del Belice, è il 14 gennaio 1968 e la paura invade indifferentemente il cuore di tutti, grandi e piccini.
Il sisma del gennaio 1968 colpì diversi paesi nella Valle siciliana, le vittime furono tante e altrettante persone furono costrette a fuggire. Tra le località colpite c’era anche Gibellina, un paesino dell’entroterra trapanese il cui centro storico venne letteralmente raso al suolo.
20 km più in là, più tardi, si diede vita ad una Nuova Gibellina e a circa 20 anni di distanza da quel terribile giorno il sindaco di allora, Ludovico Carrao, decise di ripartire da una “ricostruzione culturale”, così come è stata definita da qualcuno, invitando gli architetti e gli artisti dell’epoca a dare il loro contributo. La risposta fu sorprendentemente positiva. Tra gli artisti coinvolti vi fu anche Alberto Burri il quale, però, non volle realizzare un’opera per la nuova nata bensì per la vecchia Gibellina; è per questo che chiese di essere accompagnato proprio lì dove la forza bruta della terra aveva infranto molti sogni, aveva deciso, come uno spietato giudice supremo, il destino di molte vite, lì dove ormai giacevano solo delle macerie silenziose, nell’aspetto, ma in grado di urlare tutto il dolore provato.
L’idea che venne a Burri la spiegò lui stesso, così:
“Andammo a Gibellina con l’architetto Zanmatti, il quale era stato incaricato dal sindaco di occuparsi della cosa. Quando andai a visitare il posto, in Sicilia, il paese nuovo era stato quasi ultimato ed era pieno di opere. Qui non ci faccio niente di sicuro, dissi subito, andiamo a vedere dove sorgeva il vecchio paese. Era a quasi venti chilometri. Ne rimasi veramente colpito. Mi veniva quasi da piangere e subito mi venne l’idea: ecco, io qui sento che potrei fare qualcosa. Io farei così: compattiamo le macerie che tanto sono un problema per tutti, le armiamo per bene, e con il cemento facciamo un immenso cretto bianco, così che resti perenne ricordo di quest’avvenimento.”
Alberto Burri, 1995
Cosa fece in pratica l’artista?
Cosparse di cemento ciò che restava del vecchio paese dando vita ad un grande cretto.
Alberto Burri era già noto per i suoi cretti, ovvero superfici quadrate o rettangolari, spesse, di colore bianco o, a volte, nere su cui si susseguono crepe e screpolature, realizzate a partire dal 1973. A Gibellina, però, interviene su una superficie vastissima, dando vita ad una delle opere di Land Art tra le più famose al mondo. Egli è come se avesse steso sui resti di quello che prima del sisma era un luogo pieno di vita, una sorta di sudario, un lenzuolo bianco che ripercorre, attraverso i tagli tipici dei cretti, le vie e i vicoli del vecchio centro abitato creando una sorta di guscio che custodirà per sempre al suo interno le tracce di un passato che, in quanto tale, non tornerà più ma che rimarrà vivo nel cuore e nella memoria di chi è sfuggito a quell’inferno. È un memoriale che fa sì che il ricordo non si perda e venga trasmesso alle generazioni future, perché è impossibile pensare ad un presente senza tener conto di un passato!
L’artista diede inizio alla sua opera nel 1984 e la realizzò solo in parte. Essa venne, infatti, terminata, seguendo il progetto originario, solo nel 2015, anni dopo la morte di Burri, avvenuta nel 1995.